Non entrate in quel locale. seconda puntata

Pare sia stato Osiride in persona a scoprirla, dimenticando un decotto d’orzo al sole e che l’abbia tanto gradita da farne dono agli uomini. Nulla di stupefacente se ci pensate. Fleming ha lasciato un pezzo di formaggio fuori dal frigo e ha scoperto la penicillina.

Bevanda Divina quindi, ma andiamo a vedere cosa accade nei nostri bar.

Photo by Tembela Bohle on Pexels.com

Negli anni 70, epoca in cui inizia la nostra ricerca, avevamo a disposizione una sola birra. Alla spina, ma una. Non aveva una tipologia definita. Era la birra, anzi “bìra”. Cambiavano le marche, Itala Pilsen, Whurer, Moretti, nei locali migliori c’era la Forst, ma il tipo era sempre “bìra”. Chiara, poca schiuma e fredda.
Era una bevanda di serie B, destinata a chi non beveva il vino e aveva superato l’età della “spumeta per el bòcia“, (se non sapete di cosa sto parlando, seguite il link e colmate la vostra lacuna). In breve, la spuma è un integratore liquido gassato, alimento complementare di generazioni di bambini al seguito dei padri, alla domenica mattina al bar. I padri , ovviamente bevevano vino. E qui si palesa l’enorme differenza di trattamento tra le due bevande. Nei Bar c’era il vino rosso, il vino bianco e il rosato, già il triplo di scelta rispetto alla birra, ma non bastava. C’era il vino rosso comune detto agricolo oppure vin bòn, con possibilità di scelta tra i pregiati (e costosi) Marzemino, Teroldego, Merlòt, Sciàva; qualche baretto di paese aveva anche l’acquaròt, una specie di sciacquatura di botte con zucchero, poi ancora lo spriz bianco o rosso, che allora era vino e acqua minerale, e che si beveva quando il locale iniziava a girare in tondo e il mezzo e mezzo che era vino e spuma. Si ha memoria di alcune apparizioni di frizzantino o addirittura di Prosecco, ma le fonti sono poco attendibili e non confermate. Quelli arrivarono a fine decennio.
Per finire, si poteva scegliere anche la dose: el bicér, classico infrangibile; la sferetta, piccolo calice; la sfera, calice più grande; il duplice o doppio bicér; la caràfa, ancora più grande e il tubo, bicchiere cilindrico di ragguardevoli dimensioni.
Un’ingiustizia. Ai bòci la spuma e noi la bìra.

Una.

Piccola.

Devo menzionare per dovere di cronaca anche “el birìn”, una birra spillata nel bicér del vino, ovvero come aggiungere inconsistenza alla depressione. Non aggiungo altro e sono lieto che questa barbara tradizione sia caduta nell’oblìo.

Insomma era una vita dura. Fortunatamente, verso la fine del decennio, qualcosa iniziò a muoversi. Una sera, sul listino prezzi appeso al muro, quello nero di velluto con le letterine di plastica che formavano parole che sembravano uscite da un gioco della Settimana Enignmistica, tipo PUN H AL MAND R NO 600 CHIN TTO 120 apparve la scritta BIRRA ESTERA.

Costava 520 lire, 120 di più della BIR A N ZIONALE, era in bottiglia e di marca sconosciuta fino a che non ti veniva stappata al bancone. Prendere o prendere. Non un granché ma era il segnale che Osiride stava lavorando per noi.

La birra iniziò pian piano a diventare di moda, le birre estere inondarono il mercato e scoprimmo che non c’era solo la “bìra”, ma esistevano le Ipa, le Apa, le Lager, le Pils, e ancora Weiss, Stout, Bitter, Trappiste, birre belghe, inglesi, irlandesi e ovviamente, tedesche. Un mondo bello e vario, fresco e spumeggiante tanto che anche le birre italiane diventarono estere, aumentarono di prezzo e furono acquistate e prodotte dalle grandi multinazionali del malto.
Ma era la rivincita di noi che non bevevamo vino. Il mondo dei bar stava cambiando in nostro favore. Poteva essere il successo, ma non fu così.

Non avevamo considerato i baristi.


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