Giulio, pendolare professionista di lunga data, non era mai mancato all’appuntamento giornaliero delle 7 e 11 al binario uno della piccola stazione ferroviaria di Levico Terme.
Col suo inseparabile libro, perennemente aperto a pochi centimetri dal naso, partiva da casa ogni mattina camminando senza guardare la strada, fino al punto preciso del marciapiede dove sapeva si sarebbe arrestata la porta del suo vecchio e fedele treno. La successione dei rumori, stridio, sbuffo d’aria e cigolio, che confermavano nell’ordine, l’arrivo del convoglio, il suo arresto e l’apertura delle porte, erano segnali subliminali che imponevano a Giulio di oltrepassare la linea gialla, salire lo scalino e trovare posto nel primo sedile a sinistra. Mai un contrattempo né un ritardo avevano modificato negli anni questa sequenza di gesti automatici, compiuti mentre occhi e cuore si dedicavano all’insostituibile piacere della lettura.
Non quella mattina.
Era in ritardo, non molto a dire il vero, una decina di minuti appena, ma sufficienti a costringerlo a un inaspettato e sicuramente non voluto cambiamento di programma. Perdere il treno sarebbe stata una vera sciagura, un’eventualità mai nemmeno immaginata, tanto che, in preda al panico e senza nemmeno sciacquarsi il volto, si gettò in strada e cominciò a correre per recuperare tempo. Fu così che per la prima volta in vita sua, liberata da impedimenti visivi, vide la città. Nello stesso istante in cui le immagini nitide e violente di quelle vie, di quelle case per lui sconosciute attraversarono le sue pupille, si accorse del terribile errore. Non stava leggendo e non aveva nemmeno preso da casa il suo solito libro.
Si sentì improvvisamente nudo. Camminava con gli occhi sbarrati, straniero nel suo paese, perso in una città sconosciuta, solo intravista, immaginata negli anni oltre i bordi dei suoi paraventi di carta e cartone. Ma era troppo tardi per tornare indietro. Col cuore in tumulto raggiunse la stazione appena in tempo per udire in lontananza il cigolio delle porte del treno che si aprivano; con la forza e l’orientamento della disperazione localizzò il marciapiede, (ma era proprio il solito marciapiede?) e trovò il treno ad attenderlo, sbuffante, quasi stizzito da quel lieve ritardo di Giulio.
Salì a bordo e raggiunse il solito sedile sperando di esserne inghiottito, di rendersi invisibile. Chiuse gli occhi cercando rifugio in un sonno forzato ma uno scossone improvviso ruppe quell’esile tentativo. Il treno era partito, lui era sveglio e non aveva nulla da leggere.
Alzò lo sguardo, alla ricerca di un’ancora di salvezza, un giornale abbandonato, un libro, anche solo un volantino pubblicitario, qualsiasi cosa scritta in cui affondare il viso.
Nulla. Di colpo, il silenzio si fece sentire. Pesante, denso e opprimente. Si guardò attorno. Il treno avrebbe dovuto essere affollato ormai, ricordava bene il rumore degli altri giorni, le chiacchiere, le assurde richieste dei nuovi arrivati: “ E’ libero questo posto?”. La sua risposta affermativa, sibilata senza nemmeno alzare lo sguardo. Chissà se accanto a lui andavano sedendosi di volta in volta uomini eleganti, donne bellissime, vecchi graziosi o giovani insolenti. Che importava, lui al massimo ne percepiva l’odore, dopobarba, sapone, sigarette, sudore e questo non era mai stato di disturbo alla sua attività di lettura.
Quella mattina invece regnava il silenzio. Il convoglio non aveva effettuato ancora alcuna fermata, eppure era partito ormai da parecchio tempo. Andò al finestrino. Guardò fuori disorientato, cercando di riconoscere un paesaggio che di fatto ignorava; uno sfrecciare di piante e costruzioni sconosciute e mai considerate prima di allora. Ebbe una sensazione di soffocamento, cercò di aprire il finestrino, ma non gli riuscì di abbassarlo di un millimetro. Riprovò con quello accanto, poi con gli altri, uno dopo l’altro. Erano tutti bloccati.
Percorse più volte il corridoio tra le due file di sedili vuoti, cercando un’idea, un sistema per uscire da quella situazione assurda, irreale. La sua carrozza era quella di coda, il macchinista era irraggiungibile. Che treno era quello? E dov’erano gli altri passeggeri, ma soprattutto dove stava andando? Perché quella corsa in mezzo alla campagna a velocità folle, quasi fosse l’ultima di quel vecchio treno?
Sconsolato si sedette, appoggiò la testa all’indietro e così la vide. La leva del freno di emergenza. Era salvo. Si lanciò verso la maniglia ma non fece in tempo a raggiungerla perché il treno, esibendosi in uno stridio anche più tagliente e fastidioso del solito, iniziò a rallentare.
Si avvicinò nuovamente al finestrino. Fuori era stranamente buio, un buio opaco, senza stelle. Possibile che avessero viaggiato per tutta la giornata? Si fece scudo con le mani per vedere meglio, appoggiando la fronte al vetro.
Il contatto con la superficie gelata gli procurò un brivido che si trasformò in dolore quando Giulio capì che il treno era andato a infilarsi in un tetro capannone tra centinaia di altre carrozze. Un deposito per mezzi in disuso.
La luce che filtrava dal suo vagone, rischiarava debolmente le vetture vicine che sembravano sfilare davanti ai suoi occhi come in una lenta processione funebre. Ferraglie vecchie, malmesse, arrugginite e condannate alla definitiva immobilità, pena capitale per un mezzo di trasporto.
Finalmente il treno si arrestò, ma questa volta allo sbuffo non seguì l’attesa apertura cigolante delle porte. Si precipitò al finestrino, tentò ancora inutilmente di aprirlo. Iniziò a colpire coi pugni il vetro, disperatamente, con forza, ma si rese conto ben presto che il rumore che procurava si sarebbe disperso in quell’enorme capannone. Gridò forte, ma la voce sembrava rimbalzare contro quella spessa barriera, così come la sua immagine, restituita così diafana che sembrava provenire da un’altra dimensione.
Si lasciò scivolare a terra esausto, sconfitto e fu grazie a quella posizione che lo vide, nascosto dietro un sedile reclinabile. Un libro, un libretto a dire il vero, dalla copertina grigia, sottile e anonimo, ma per Giulio il più bello e prezioso prodotto dell’editoria mondiale. Tutto passò in secondo piano, il treno, la prigionia, la paura. Adesso aveva finalmente qualcosa, un libro da leggere. Si avventò su quell’oggetto come un naufrago su un relitto, lo afferrò, avido.
Con quel tesoro in mano ritornò al suo sedile, sarebbe stato il posto perfetto per aspettare. Aspettare e leggere. Si sedette, appoggiò il libro sulle ginocchia e iniziò la lettura:
BINARIO MORTO
di Solitudo
Giulio, pendolare professionista di lunga data, non era mai venuto meno all’appuntamento giornaliero delle 7 e 11 al binario uno, l'unico della piccola stazione ferroviaria di Roncegno Bagni di Marter. Col suo inseparabile libro, perennemente aperto a pochi centimetri dal naso, partiva da casa ogni mattina camminando senza guardare la strada...
Improvvisamente, annunciato da uno schiocco lontano, il buio ebbe la meglio su tutto. Anche sull’ultimo urlo di Giulio.
Vestivo la divisa delle Polizia di Stato da anni, ne avevo passate tante, ma un’espressione così terrorizzata sul volto di un cadavere giuro che non l’avevo vista mai. Presi nota dei primi elementi per il mio rapporto in attesa dell’arrivo della scientifica e del medico legale. Non rilevai alcun segno evidente che mi aiutasse a comprendere il motivo della morte di quell’uomo, trovato dagli operai della demolizione sul sedile di una vecchia carrozza in deposito ferma da anni. Conoscevo per ora solo il suo nome, Giulio Polsa, come diceva l’abbonamento ferroviario che avevo preso dalla tasca interna della sua giacca. Sfilai un piccolo libro dalla copertina grigia dalle fredde mani di Giulio. Lessi il titolo: “Binario morto”; autore Solitudo. Mi era del tutto sconosciuto ma sentivo che avrei dovuto leggerlo fino in fondo prima di chiudere il mio rapporto.
Puoi seguire la pagina del Trentaquattresimo Trentino su Facebook per essere aggiornato sulle nuove storie.