La notte trentina stava cedendo a un’alba pigra screziata di viola. La stanchezza stava facendosi sentire. Volevo solo bere l’ultimo caffè della notte e smontare, ma il nostro baretto era ancora chiuso.
– Che palle Alfio. Il bar è chiuso. Aspettiamo che apra?
– Sì ma fermiamo quella Punto intanto, sennò mi addormento.
Non avrei voluto, ma avevamo ancora una mezz’ora di servizio. Acconsentii. Un controllo veloce, un caffè e poi tutti a nanna.
Con poca voglia accesi il lampeggiante, sporsi la paletta dal finestrino e feci segno al conducente di accostare.
Felipe non stava più nella pelle dall’emozione quando, con la tuta blu e verde della ditta di traslochi arrivò davanti alla sede della Acme – Affariloschi coi suoi nuovi colleghi. Farsi assumere per quel lavoro era stato facilissimo. Compenso ridicolo, prospettiva di fatica alta, niente assicurazione, niente contributi niente documenti da firmare. Compito di esclusiva fatica: trasportare fino al quarto piano di una palazzina cittadina un notevole carico di scartoffie. Niente montacarichi e 152 scalini, dalle sei di mattina alle sette di sera. Prendere o lasciare.
E aveva preso.
Perché aveva un piano.
I nuovi uffici erano già operativi da settimane e secondo Felipe la cassaforte doveva essere bella gonfia. Bastava nascondersi all’interno degli uffici, attendere la chiusura quindi uscire dal nascondiglio, aprire la cassaforte e sparire con il suo contenuto.
152 scalini. Dalle sei di mattina alle sette di sera. Su e giù e niente montacarichi. Soffriva Felipe, soffriva e sudava perché in realtà di lavori faticosi, lui, non è che ne avesse svolti poi molti nella sua vita. Tempo sprecato, pensava. Faticando non si diventa ricchi. Ma stavolta aveva un piano e faticava e sudava e pensava alla cassaforte che lo stava aspettando al quarto piano. Soffriva e sudava e portava pacchi finché finalmente arrivarono le sette. Non stava quasi nemmeno in piedi e respirando a fatica salutò l’impiegato e i suoi colleghi che sgommarono via.
Finse di uscire, chiuse la porta e si infilò, non visto, nella cassa di legno, che aveva preparato. Chiuse sopra di sé come in una bara il pesante coperchio, mentre il cuore gli batteva forte per la fatica e per l’emozione.
E fu buio, e freddo e l’aria che respirava era cattiva e poca. Non se l’aspettava quel freddo Felipe, e nemmeno quel silenzio che sapeva tanto di morte. Ebbe paura, anzi fu vero panico ma non poteva certo uscire. Non adesso che l’impiegato era entrato proprio in quella stanza per riporvi delle scatole. Pesanti scatole di fogli che posizionò accuratamente sul coperchio di quella strana cassa che somigliava tanto ad una bara e che non gli sembrava di aver mai visto prima.
Felipe aspettò ancora, pregò in silenzio, pianse, credette di morire e infine provò a scansare il coperchio con l’unico risultato di conficcarsi una lunga scheggia di legno tra l’unghia e il polpastrello. Trattenne un grido, pianse ancora un pò poi riprese a spingere ma il coperchio sembrava inchiodato. Tentò per un’ora, forse tre, finché ormai sfinito, riuscì ad inclinare il coperchio sotto il quale giaceva sepolto vivo e ad uscire.
La stanza era buia, Felipe si muoveva a tentoni cercando la porta. Scorgendo un tenue chiarore si avviò deciso in quella direzione ma lo spigolo di una mensola ad altezza tempia lo bloccò subito. Cadde in ginocchio, mentre dalla fronte iniziava a sgorgare copioso il sangue.
Si trascinò fuori, recuperò gli attrezzi e scese di un piano raggiungendo la cassaforte. Usò lo scalpello, il piccone, la fiamma ossidrica. Aveva le mani insanguinate, da un occhio ormai gonfio non ci vedeva ma continuò a picchiare, a far leva, a forzare, a fondere. Dopo tre ore, una scheggia di metallo rovente si staccò e gli si conficcò nel collo. A causa della stanchezza, la sua precisione vacillava. Ogni tre colpi a segno uno finiva impietosamente sulle dita o sui polsi. Non sentiva più le mani, né i piedi e il tempo passava. Si convinse che non sarebbe riuscito ad aprirla sul posto, quindi decise di portarsi via la cassaforte intera. Il tentativo di sollevarla fallì miseramente accompagnato dal sinistro rumore delle fasce muscolari della schiena ma soprattutto dal lancinante dolore lombare. La trascinò, aggrappandosi con le unghie rotte e le dita tumefatte. Al primo gradino rimase col piede sotto il pesante fardello. Pianse ancora, dignitosamente, in silenzio. Lungo la discesa fu schiacciato tra il corrimano e la cassaforte, si strappò la tuta, perse una scarpa e si strappò un’unghia. Poi finalmente fu in fondo e con un ultimo sforzo, trovato chissà dove, caricò la cassaforte nel baule della sua Fiat Punto furbescamente parcheggiata la notte precedente. L’automobile si abbassò sugli ammortizzatori e Felipe sulle ginocchia. Non ci poteva credere. Erano le sei, ventiquattro ore di fatica, di paura, di dolore ma ce l’aveva fatta.
Oramai non lo avrebbero beccato più, ne era sicuro. Prese via Brennero, passò davanti ad un bar chiuso, poi guardò nello specchietto retrovisore.
Una volante della Polizia gli si accodò ed accese il lampeggiante. Lo sbirro dal lato passeggero, con aria svogliata sporse la paletta dal finestrino e gli fece cenno di accostare.
Felipe rallentò, poi si fermò. Spense il motore ed appoggiò il capo sul volante mentre una lacrima calda si staccò dall’occhio, scivolò lungo il naso sporcandosi di sudore e di sangue rappreso e cadde sul tappetino della Fiat Punto.
Eppure era davvero un buon piano. Pensò.
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