Come un maligno parassita, il trillo del telefonino si levò aleggiando nell’aria, puntò sui loro corpi addormentati e li percorse piano, accarezzandone i contorni, studiandone le difese.
Poi decise, ed entrò.
In lei.
Si mosse piano, esplorando i recessi dell’inconscio, assecondò i contorni indefiniti dei sogni confondendosi con i rumori muti dell’immaginazione. Poi, sicuro della vittoria, si manifestò, squarciando il suo sonno caldo e tranquillo.
Ema si svegliò ed afferrò il cellulare. Il display confermò quello che temeva.
“ Che c’è? Ma che ore sono?”
“ Scusa Ema, ma è arrivata la chiamata. E’ per le sette… adesso sono le cinque e venti.”
Si alzò dal letto senza accendere la luce. Un debole chiarore, regalato dall’insegna sempre sveglia di un grande magazzino l’aiutò ad orientarsi. Mise a posto le lenzuola, coprendo le spalle di Marco che si mosse appena, emettendo un lieve mugolio che la fece sorridere.
“ Le cinque e venti? Ma proprio oggi cavolo che volevo una giornata tutta per noi… capita così di rado…”
“ Dai Ema, lo so che è una rottura, ma sai anche che non può mica preannunciare il suo arrivo. Lo farebbero fuori volentieri in molti… comunque alle sei in Questura, poi come al solito.”
Ema chiuse la comunicazione ed appoggiò la fronte sul vetro fresco della finestra chiudendo gli occhi.
Amava il suo lavoro, anche se lo faceva da poco. Scortare, proteggere persone che per il loro mestiere erano a rischio di morte, permettergli di poter svolgere il loro incarico, la loro missione, era un vanto per lei, come per tutti i ragazzi del Nucleo Scorte. Alla sua squadra era stato affidato da qualche tempo un magistrato molto conosciuto e ogni ordine di arresto che questo emetteva, ogni incriminazione, ogni colpo inferto a quello schifo di cancro che infestava quella che era diventata la sua città, la convinceva sempre più che quello era il suo posto nella vita, che quella era la parte giusta.
Quella mattina ci mise solo un po’ di più a darsi la carica, a ritrovare la voglia e l’impegno che l’aveva sempre contraddistinta, quella convinzione che più di una volta l’aveva aiutata ad ignorare l’alone di sospetto che percepiva negli sguardi dei colleghi maschi. Scivolavano via i sorrisi maligni e le gomitate che questi si scambiavano quando la vedevano indossare gli scomodi giubbotti antiproiettile, pensati per i toraci piatti degli uomini o quando si allacciava la fondina alla cintura, contrastante impatto visivo alle morbide forme dei fianchi femminili. Via, spariti, cancellati di fronte allo sguardo consapevole e serio dell’Agente della Polizia di Stato Ema, del Nucleo Scorte della Questura di Palermo.
Le donne in Polizia erano ancora poche e pochissime quelle impiegate in servizi operativi altamente rischiosi. Una era lei e anche oggi era l’occasione per dimostrare che chi l’aveva voluta al Nucleo Scorte non si era sbagliato.
Chiuse piano la porta della camera da letto e si diresse verso il bagno. Guardandosi allo specchio, riconobbe con soddisfazione lo sguardo di una donna serena, i lineamenti addolciti, quasi infantili di chi ha passato la notte tra le braccia di chi ama. Come in una sorta di bilanciamento, lei che proteggeva per mestiere, si sentiva debole e indifesa fuori dal servizio e l’abbraccio di Marco era tutto quello che voleva una volta riposta la sua Beretta 92SB nella cassaforte di casa.
Fu una toeletta veloce ed efficace, come sempre. Non dover indossare la divisa aveva i suoi vantaggi, specialmente per quel cespuglio ribelle di capelli, da sempre ostile a rimanere castigato sotto il berretto di cordellino blu.
Scelse dei jeans e una camicia ampia, del resto era domenica e gli appuntamenti del magistrato sarebbero stati certamente privati, quindi niente ufficialità a tutto vantaggio della comodità. Coprì la pistola allacciata alla cintura tirando la camicia sopra i pantaloni e si diede un’ultima controllata allo specchio.
Sperava di finire presto, che il magistrato decidesse di fermarsi in qualche luogo sicuro, vigilato dai suoi colleghi, per poter ritornare in fretta a casa, in quel piccolo e rassicurante mondo che stava crescendo attorno a loro due.
Aprì la porta del terrazzino per respirare un po’ d’aria fresca e sistemò, con un vezzo che a volte sorprendeva lei stessa, la sua pianta di Bougainville in vaso, togliendo una fogliolina ingiallita prematuramente. Un fiore ancora turgido, cadde inspiegabilmente a terra. Lo guardò indispettita e ritornò davanti allo specchio scegliendo tra i rossetti l’“Ultrabrillante Bouganville nr.4”. Lo svitò, poi scrisse sullo specchio del bagno:
“Torna a letto e aspettami. Ti amo.”
Firmò con un piccolo cuore, spense le luci ed uscì nella primissima mattina palermitana, affrontando la luce di un sole giovane e già troppo violento.
Attraversò la città ancora deserta guidando svelta e raggiungendo la Questura ancora prima dell’appuntamento. Quale membro più giovane della squadra non aveva particolari incombenze per i preparativi, così si trattenne al corpo di guardia. Salutò Erminio, l’Assistente addetto all’ingresso, che portava sul volto i segni dell’ennesima guerra metropolitana, combattuta in una notte troppo lunga, con caffè troppo amari e sigarette troppo corte.
“Ciao Ema. Lo andate a prendere?” chiese con voce roca.
“Già, anche oggi…” abbozzò un sorriso ma il tono della voce tradì una leggera stizza che non sfuggì alle orecchie dell’esperto vecchio poliziotto.
<> pensò accendendosi l’ennesima sigaretta. Avvertiva qualcosa Erminio, una sensazione che lo inquietava ma che non riusciva a focalizzare. Un pensiero, un’ombra, un’ala nera a coprire il sole, immagini difficilmente traducibili in parole, ancor più per lui che di parole ne usava poche. Il suono di una sirena proveniente dal cortile interno ruppe i suoi pensieri e segnalò a Ema che era ora di andare.
“Occhi aperti ragazzina” disse Erminio ma Ema era già sparita all’interno della Questura a raggiungere il resto della squadra.
“Occhi aperti” ripeté a se stesso gettando il mozzicone nel tombino sotto i suoi piedi.
“Occhi aperti…”.
Gli autisti, seguendo fin troppo diligentemente il regolamento, stavano provando, nel cortile interno, l’efficienza delle segnalazioni sonore; collaudo quasi sempre ignorato ma che veniva eseguito con dovizia particolare quando venivano soddisfatte due condizioni spazio-temporali: sotto alle finestre delle stanze da letto dei funzionari e nelle primissime ore del mattino.
A concerto terminato, il gruppo era completo.
“Lo andiamo a prendere all’aeroporto, poi a casa. Più tardi farà una visita alla madre. Nessun orario, come sempre.”
Le parole del capo scorta, unico fino ad allora a conoscere gli spostamenti del magistrato, procurarono una stretta al cuore di Ema che rivide per un attimo le parole lasciate scritte sullo specchio di casa sua. Che cosa avrebbe detto a Marco al suo ritorno, come avrebbe giustificato ancora questa partenza improvvisa, il ritardo, questa segretezza, questa mancanza di certezze che lui qualche tempo cominciava a soffrire?
Salirono nelle autovetture, ed il tonfo sordo delle pesanti portiere blindate li escluse dal mondo. Negli abitacoli calò il silenzio, era la fase della metamorfosi, del primo passo necessario per quel tipo di lavoro che non concedeva spazio alle vite personali, ai pensieri privati, agli affetti. Ora la preoccupazione di tutti doveva essere una sola.
La vita.
La loro e quella del Monza 900, appellativo ormai risaputo di ogni personalità sottoposta a protezione dalla Polizia.
L’aereo atterrò in orario, e altrettanto puntuale arrivò la vampata calda, seguita da un leggero brivido dietro la nuca che proiettò Ema nel suo ruolo, attrice di quel mestiere che tutti avevano sempre definito “da maschi”.
Era il momento di prendere quell’uomo, sicuramente disarmato e indifeso davanti alla cattiveria di una certa parte del mondo e sostituirsi alle pareti metalliche del velivolo, essere il suo giubbotto antiproiettile, il suo scudo, la sua guida, l’aria che respira, il riferimento negli spostamenti i suoi occhi nelle strade. Proteggerlo, mettersi tra lui e il pericolo, tra lui e il male. Questo pensava Ema mentre con gli occhi perlustrava ogni angolo di spazio che la vista le concedeva, alla ricerca di stranezze, di insidie, di pericoli.
Chi più di una donna poteva sapere, capire che cosa significasse tutto questo, se non colei che è destinata da sempre, preparata dalla natura a proteggere, a portare dentro se per nove mesi un’altra vita fragile e indifesa?
Gli uomini possono imparare, certo, e a volte lo fanno, ma le donne lo sanno.
I movimenti sulla pista furono veloci e collaudati. Cenni di intesa, saluti, scambi di frasi convenzionali poi via, veloci, a formare una piccola carovana rumorosa di tre mezzi che se stanno vicini si sentono più sicuri, meno indifesi.
Ema guardava fuori, attenta a memorizzare ogni mezzo che si avvicinava, a cercare i volti degli occupanti delle automobili che la giostra del traffico proponeva con un incessante cadenza. Scrutava gli sguardi di uomini e donne cercando di leggerne le intenzioni, immaginando di poterlo fare almeno. Chi di loro, chi mai poteva essere quello che portava la morte sul sedile di fianco, su quello dietro, nel baule, nell’anima?
Improvvisamente una sterzata brusca, una imprecazione del capo equipaggio, il motore che sale di giri e i pneumatici ad urlare sull’asfalto caldo. Il cuore di Ema, sollecitato da quella momentanea mancanza di contatto visivo con il magistrato ebbe una improvvisa accelerazione che andò scemando non appena la carovana si fu ricomposta. Per un attimo, un solo attimo, tra di loro si era infilato un elemento estraneo ed i campanelli di allarme si erano accesi.
Proteggere, pensava ancora Ema, mettersi tra lui e il male, perché così nulla di male può succedere. Arrivarono all’abitazione del magistrato, e fu il momento dell’attesa. Un minuto, un’ora, chissà. Comunque troppo per Ema quel giorno. Non telefonò a Marco, avrebbe dovuto scusarsi ancora una volta e non avrebbe comunque potuto dire dove era né dove sarebbe andata. Si allontanò qualche passo, lasciando che una leggera malinconia calasse su di lei, quasi volesse estraniarsi da quello che stava accadendo.
Da un piccolo parco giochi oltre la siepe arrivavano grida di bambini, cigolii di altalene, scampanellate allegre di piccole biciclette. Ema si sporse per vedere quel piccolo pezzo di mondo dove le mamme, per un qualche misterioso innato presentimento, sanno alzare gli occhi dalle pagine delle loro riviste, giusto in tempo per bloccare il figlio prima che si faccia del male.
Ema sorrise al pensiero di quella curiosa e non nuova analogia. Guardava quelle donne pazienti, impegnate solamente ad aspettare che i loro bambini crescessero, a vigilare su di questo, con l’unico importantissimo obiettivo, di lasciarli crescere. Osservava quelle donne quiete nell’aspetto e così attente ad ogni estraneo che si avvicinava ai loro piccoli, pronte a intervenire.
Si chiese per un momento se quel suo lavoro, per lei così importante e per il quale metteva a rischio anche la sua relazione, non fosse una sorta di ripiego, una compensazione forzata e innaturale a quello che la sua natura richiedeva e che lei non aveva mai ascoltato. Si immaginò su quelle panchine, mamma tra le mamme, donna tra le donne e la cosa non le sembrò nemmeno inverosimile, tanto che quel sorriso appena accennato stavolta si propagò in tutta la sua persona. Forse era l’ora di pensarci davvero.
Tornò sui suoi passi e raggiunse il resto del gruppo proprio mentre il caposcorta avvertì che tra qualche minuto sarebbero ripartiti. Riprendere la concentrazione necessaria, con l’umore giusto, fu decisamente più facile.
La carovana si ricompose seguendo un copione collaudato. Sgusciarono nel traffico con manovre azzardate, sfruttando gli spazi tra le doppie file, sulle corsie d’emergenza, evitando gli incroci affollati e le strade intasate. I loro occhi proiettavano sciabolate in ogni direzione e quando fu l’ora di scendere i loro corpi si richiusero attorno a quelli del magistrato in una sorta di cintura umana. Vicini, stretti, al sicuro per quegli ultimi pochi metri, perché così nulla può accadere.
Ed è la violenza ad esplodere, nella sua forma più oscena e più vigliacca.
E’ qualcosa che ti separa dagli altri e capisci che questo non è bene.
E’ il male in persona che si insinua tra di voi.
E’ un muro di fuoco, un’ondata di polvere rovente che ti strappa via i vestiti comodi, i capelli a cespuglio, la pelle morbida, il sorriso di donna.
Che ti toglie la vita.
E’ un fiume arrabbiato e violento, che afferra quel poco che rimane di te e ti proietta in aria.
Poi è l’ora di ricadere, forse non a caso dentro un giardino di Bouganville, vicino ad fiore ancora turgido caduto inspiegabilmente.
A Emanuela, una di noi che non ho mai avuto il piacere di conoscere
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