Le domeniche pomeriggio al Namber si susseguivano uguali a se stesse, consumandosi come le nostre Camel, e questo finì per non bastarci. Aggiungemmo allora, anche se il costo del biglietto era più impegnativo, qualche capatina al sabato sera, quando una spessa parete veniva alzata a dividere il mondo disco da quello liscio. Inizialmente snobbavamo quel settore, fedeli al nostro Four-on-the-floor ma col tempo ci capitava di passare sempre più spesso nella zona del vecchi, attratti da quel preciso roteare delle coppie eleganti ma soprattutto dal ridottissimo abbigliamento delle cantanti dei gruppi orchestrali e non di rado delle frequentatrici.

Fuori dal locale, ma a volte anche dentro, si formavano dei cerchi di persone che facevano roteare spinelli di ogni forma e contenuto, sull’onda entusiastica della nuova legge sugli stupefacenti che sventava il rischio di finire in galera o in manicomio per il semplice possesso pezzo di fumo. Ognuno aveva una sua tecnica per aspirare da quel sacro graal e dimostrare agli altri che non era un novellino del mestiere. Chi univa le mani a coppa infilando poi la canna tra indice e medio, chi la posizionava parallela a due dita aspirando di traverso, chi la teneva con due mani o tra le punte di quattro dita. I più ferrati raccontavano di come era stato fantastico aspirare attraverso una mela bucata, o un barattolo con dentro ancora della birra. Tecniche ardite ma accomunate dal rischio di far cadere la piva per terra con conseguente espulsione ed esposizione al pubblico ludibrio. Nel dubbio io fumavo alla Humprey Bogart.


Partecipai ad alcuni girotondi cercando di appassionarmi alla materia ma non riuscii mai a farmi piacere quell’odore pungente che a me ricordava sempre il gasolio. Nemmeno gli effetti mi divertivano molto, mi sentivo impacciato ed osservato quindi lasciai perdere e come gesto eclatante passai dalle Camel alle Lucky Strike, le sigarette di Danny Zuko in Grease e ovviamenmte del vecchio Humprey, quindi alle sigarette rollate rigorosamente a mano col tabacco Drum. Poteva bastare.

Una soleggiata (fuori) domenica di primavera, sorseggiando il mio Negroni da consumazione obbligatoria, fui colto da un dubbio.
Perché mi ostinavo a venire in questo posto visto che il lato conquiste femminili, obiettivo primario stagnava a livelli prossimi allo zero, che fumare erba al sapore di nafta non mi andava e che ballare, tra l’altro con pessimi risultati coreografici, mi costava più fatica che divertimento?

Poteva essere l’appiglio per dire addio alla discoteca e a tutto il suo mondo ma il destino volle altrimenti.

Apparve dal nulla una bellissima ragazza in jeans e canottierina nera, con degli occhi grandi, quasi spauriti e un caschetto di capelli neri che luccicavano alle luci della pista. Si avvicinò a me sorridente, decisa, come volesse proprio me tra tutti e a conferma del mio sospetto, con una voce stupenda e sensuale mi parlò:
“Hai una sigaretta?” 
Non me l’aspettavo. Avevo solo il tabacco Drum e non fui prontissimo nella risposta. Quando mi offrii di arrotolargliene una lasciando ovviamente a lei l’onere di leccare la colla, la vidi girarsi ed allontanarsi leggiadra come era arrivata. Non la vidi mai più.

Ma il piano del destino, come dicevo prima di essere interrotto da quella str… ragazza, volle altrimenti. Il DJ, quasi avesse percepito la mia momentanea debolezza, mise fine alle musichette di riscaldamento, guardò verso di me e diede volume a uno dei più coinvolgenti brani, a mio avviso, della musica da discoteca del momento.  Tout petit la Planèt, di Plastic Bertrand

Fu un segnale inequivocabile. Non so come accadde ma per la prima volta entrai in pista e ballai senza fatica, senza curarmi dei passi (e dei piedi altrui). Sentivo la musica entrarmi dentro e muovermi il corpo. Mi lasciavo trasportare dal suono e anche se chiudevo gli occhi i colori delle luci entravano comunque ad accompagnare quella facilità movimento che non credevo di possedere. Fu semplicemente stupendo.

Al termine del brano, mixato da Gianni, il DJ dai capelli grigi, lasciai la pista spossato ma sereno. Era chiaro che non sarebbe stato il ballo quello che mi avrebbe trattenuto ancora per molti mesi in quella e altre discoteche. Fu evidente anche a quelli che mi circondavano in pista e che generosamente facevano finta di nulla.
Non il ballo ma la musica. Quella sera ne compresi la bellezza e la potenza e iniziai ad ascoltarne tanta, di tanti generi e in maniera diversa.

Non sarebbe stato facile, il digitale era ancora lontano e i nostri supporti erano le audiocassette e i vinili e le fonti primarie le radio private.
Ma questa è una storia che merita un capitolo a parte.

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