Dalle puntate precedenti
“…Ci volle del tempo, ma alla fine, con le nostre tremilalire in mano e il cuore che batteva all’impazzata, una domenica pomeriggio ci presentammo all’ingresso del Paradisi Star, pronti a farci inghiottire dal vortice della Disco Music.
Ancora non lo sapevamo, ma non avremmo rivisto la luce del sole domenicale per i prossimi 5 anni…”
Il grande parcheggio sterrato era più vasto di quello di piazza Fiera nei giorni del mercato di San Giuseppe. Le Dyane 6, i 2CV, le Renault 4 e altre Citroen di varia foggia fino allo sciccoso Pallas stazionavano in bella mostra dopo aver scaricato decine di “fonghi”. (1)
Gli interni di questi scrigni erano stati sapientemente impreziositi da tendine ai vetri, lucine colorate, cuscini e diffusori di aromi oltre ovviamente a impianti stereo che spesso costavano più dell’automobile. Una volta in funzione, questi gioielli elettromeccanici mettevano in crisi tutta la bulloneria per via delle vibrazioni emesse dai giganteschi woofer sovralimentati. Le piccole Citroen, come barchette colorate, sfoggiavano sul tettuccio arrotolabile bandiere americane o giamaicane con tanto di foglia di Marijuana.
Su tutti spiccavano gli adesivi glitterati, dal vagabondo, un capellone di schiena con chitarra e sacco a pelo tracolla, a quelli delle molte discoteche già divenute storiche: Thypoon, la Baia degli Angeli, il Chicago, lo stesso Paradisi Star, il Melody Mecca ma soprattutto il Cosmic. Non eri un “fonc” (1) genuino se non avevi fatto almeno un pellegrinaggio al Cosmic di Lasize nel tempio delle discoteche dell’epoca. Il settore due ruote era di completo appannaggio Piaggio. O Vespa o Ciao. Meglio la Vespa che aveva lo spazio per gli adesivi e magari il PX che aveva il posto di un modesto impianto stereo nel bauletto.
Per evitare confronti imbarazzanti lasciammo i nostri bolidi ben poco emblematici a debita distanza e raggiungemmo l’atrio d’ingresso mischiati al fiume dei “zitadìni” che arrivavano in corriera, dissimulando la nostra emozione ma soprattutto il nostro timore e cercando di mantenere un certo contegno fumando una Camel dopo l’altra. Al cospetto della biglietteria ebbi come l’impressione di entrare nel nostro spartano Supercinema di Pergine solo un po’ più elegante e morbido.
Piccola doverosa parentesi a favore di quella sala che a suo tempo assolse il dovere di svelarci le prime nudità femminili col film “Senza buccia”. (Accenno solo che tra gli interpreti c’erano Lilly Carati e Ilona Staller, ma di questo racconterò in una successiva storia.)
Col nostro bel biglietto in mano ci presentiamo all’ingresso. Un miscuglio di Rocky Balboa e Lurch, maggiordomo della Famiglia Addams, ce lo strappa, (proprio come al cinema) e ci fotografa mentalmente. Il suo sguardo è un avvertimento: “Bòci no ste far cazade che ve ciàpo per le fize del cùl e ve sbrego sù come sto bigliet,” (trad: Ragazzi mi raccomando comportarsi bene). Assimiliamo l’avvertimento ed entriamo.
Il mondo esterno, fatto di luce, di aria in movimento e di ombre ben definite scompare dietro le pesanti tende alle nostre spalle. Davanti a noi un mondo sconosciuto ci avvolge in un abbraccio incorporeo piacevolissimo fatto di luci basse, di musica e di profumi nuovi che nella mia ingenuità immaginavo incensi. Ci lasciamo trasportare in quel limbo e per qualche minuto fluttuiamo a mezz’aria con le bocche semiaperte. Una volta atterrati ci guardiamo in giro. Dappertutto divani bassi sui quali alcune coppiette avvinghiate in impegnative contorsioni instillarono in noi un certo ottimismo. Sulla sinistra individuiamo la pista da ballo, ancora vuota. I DJ, nella loro postazione sopraelevata stavano settando l’impianto e provavano gli equalizzatori con delle musiche di riscaldamento. Riconobbi un brano di Mike Olfield, tanto per chiarire che proprio a digiuno musicale non ero. Rimasi deluso dal volume piuttosto basso e dalle quattro lucette che lampeggiavano tra decine di aggeggi di metallo e vetro appese sopra al soffitto come le lucaniche della vecchia cantina del Crucolo.
Nel percorso obbligato tra i divani, i ragazzi sfilavano incessantemente come se avessero qualcosa di importante da fare in un posto lontano. Una sorta di Bianconigli da discoteca. Poi capimmo che nessuno doveva andare da nessuna parte. Si girava per ingannare il tempo e con la recondita speranza di incrociare quella, o quello con la quale speravamo di avvinghiarci sui divani. In realtà a noi sarebbe bastato incrociare qualcuno con cui dirsi semplicemente ciao.
Seguimmo il corso del “passeggio”: lato est tra i divani fino alla parete opposta all’ingresso, svolta a sinistra, qualche gradino, corridoietto davanti al bagni e dietro la postazione del DJ, quindi discesa, svolta a sinistra e ancora a sinistra nel passaggio dietro al bar fino a concludere il giro.
Compimmo questo giro una decina di volte senza dire o farsi dire ciao da chicchessia, andammo in bagno tre o quattro volte, fumammo cinque sigarette e infine decidemmo di usufruire del nostro biglietto di “ingresso gratuito con prima consumazione obbligatoria” che sbaglierò ma ho sempre considerato una forma astuta di raggiro alle imposte. Che poi sta cosa dell’obbligatorio non la capivo. E se non volevo bere nulla? Comunque lasciai perdere la mia disquisizione filosofica e mi avvicinai al bancone. Alle spalle dei baristi decine di bottiglie che non ho mai capito a cosa servissero, visto che i cocktail erano già preparati in grandi bottiglioni. Orripilante a pensarci ora.
Non eravamo dei gran bevitori all’epoca e per sciacquarci la bocca dalle decine di sigarette fumate avremmo volentieri gradito una semplice Coca, ma bisognava uniformarsi alla situazione, così, copiando l’ordinazione di una ragazza che mi sembrava saperne di cose della vita, ordinai un Negroni. Col tempo e la saggezza sono arrivato ad apprezzare quel semplice ma azzeccatissimo cocktail ma allora ebbi come l’impressione che una colata di lava incandescente mi invadesse le viscere scorticando strada facendo tutti i miei organi interni.
Tornai per la quinta volta in bagno e dopo aver spento il fuoco con l’ottima e gratuita acqua dell’allora Sindaco Crivellari mi adagiai su un divano.
Fu allora che il DJ scalò una marcia e diede gas.
Le lucaniche appese improvvisamente presero vita. Una cascata di luci, fari, riflessi colorati, sferzate di stroboscopiche si riversarono in mille zampilli sulla pista infiammandola. La musica aumentò di volume una, due, cento volte. All’inizio senza tempo, senza ritmo, solo una melodia ipnotica in continuo crescere, giri di accordi sempre più veloci fino ad arrivare ad una settima (per chi ne mastica di musica) in massima sospensione e preludio di un potente appagamento che infine giunse, orgasmico accompagnato da un travolgente giro di basso che introduceva il battito, il Beat, il cuore pulsante della musica che il DJ non avrebbe più mollato fino alla chiusura.
Come topini al seguito del pifferaio magico i “fonghi” (esclusi gli avvinghiati) lasciarono i divani e i percorsi irrazionali e si riversarono in pista. Tutti a ballare, tutti assieme e tutti da soli, seguendo il battito in maniera assolutamente anarchica, libera. Presente i balli di gruppo? Bene, il contrario.
Il tempo della musica picchiava forte e sempre uguale, uniformandosi al battito del cuore, o forse era il contrario. Vibrava nella pancia, mentre i suoni acuti si facevano spazio tra le orecchie e le tempi. Le luci roteavano e accarezzavano gli occhi, la lampada di Wood faceva risaltare denti e camicie bianche. Uno spettacolo incredibile. Invidiavo la leggerezza e il coraggio di tutti quei miei coetanei che si dimenavano. Sapevo che io non ne sarei mai stato capace.

Mi sedetti su un rialzo e mi ripromisi che sarei ritornato là ogni domenica e che non mi sarei mai buttato in pista.
Mantenni solo una delle due promesse…
( continua…)
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