La condanna a morte delle biciclette si concretizzò al nostro quattordicesimo compleanno e quindi dalla possibilità legale di condurre un motorino. Allora era abitudine rispettare la Legge; nessun genitore si sarebbe sognato di contestare un verbale dei Vigili Urbani e ancor meno un brutto voto o un castigo dato a scuola.
Prima scontavi la pena e poi pigliavi il resto!
Così stipammo le bici in fondo al garage, ignari che le avremmo rispolverate da trentenni in preda a un’esaltazione salutista-ecologista peraltro di effimera durata (ma di questo parleremo in una prossima puntata), e demmo fondo a risparmi e a promesse di imperituro impegno scolastico e di collaborazione domestica per acquistare i primi motorini.
Come sempre il gruppo era eterogeneo: il conformismo non faceva per noi; ognuno si procurava il mezzo che le finanze permettevano, così avevamo un ampio ventaglio di mezzi dalle caratteristiche diversissime ed eravamo pronti a conquistare il mondo, nonostante il caromiscela. Un litro al 2 per cento, pompato a mano al distributore Esso sulla statale della Valsugana, quando ancora passava in paese, costava oltre 900 lire, che rapportata al costo della vita odierna corrisponderebbe agli attuali 2 euro e mezzo!
C’erano i Benellisti, al quale appartenevo anch’io col mio Magnum, tozzo, ruote piccole. I Benelli avevano sempre le pedaline rotte o piegate o col dado allentato tanto che si perdevano per strada. Una disperazione. La soluzione definitiva era la saldatura ad elettrodo che solitamente facevano i “Maza”, meccanici di moto e bici in voga all’epoca. Il nomignolo Maza, (ovvero mazzuolo, grosso martello), derivava dallo strumento di lavoro preferito di questi cesellatori meccanici, a prescindere su quale parte dovessero intervenire, fossero le pedaline, appunto, i fanali o il delicatissimo volano.
Molto popolare era il gruppo Piaggio. Chi aveva il Ciao ne esaltava la propulsione meccanico-quadricipitale nonostante una certa rigidità della parte posteriore mettesse a dura prova i lombi sulle strade bianche. I fratelli maggiori, Boxer e Sì, sebbene dotati di confortevoli sospensioni e di sella non masochistica non avevano lo stesso fascino. Le Vespette se la cavavano nonostante fossero difficili da modificare e disastrose in caso di cadute. Avrebbero comunque trovato la loro fantastica rivincita qualche anno dopo all’apertura del Paradisi Star e dalla nascita dei “Fonghi”. (A breve su questo blog)
C’era poi il “gruppo misto” come alle Camere, di chi aveva motorini non di comune scelta, tipo Garelli, Fantic, rigorosamente trial, Italjet, Malanca, Peripoli…
C’era anche una Moto Morini, che ovviamente dava il la alla mitica canzone popolar pornografica “Ho comprato la Moto Morini, l’ho comprata apposta per te, ma da quando non fai...” eccetera eccetera. In realtà, cosa la citata signorina non facesse più non ci era del tutto chiaro, ma bastavano gli sguardi sdegnati delle cetine (*) sentendocela cantare, a convincerci che fosse una cosa assai licenziosa ma degna di attenzione. E non ci sbagliavamo.
Come con le biciclette, iniziammo a metter mano ai nostri bolidi, prima timidamente poi sempre più audacemente. Imparammo a sostituire i getti del carburatore e quindi il carburatore stesso, a cambiare pignoni e corone, ammortizzatori marmitte e finanche testate intere con risultati non sempre esaltanti. Maestro del settore il mitico Guido Guidolli tuttora detentore del record stagionale di grippate con la stessa moto.
Le modifiche più o meno ufficiali, avevano però lo svantaggio di essere piuttosto costose, quindi ecco arrivare in soccorso la fantasia; così, costruivamo delle marmitte utilizzando le lattine vuote della cocacola, con buonapace dei timpani dei paesani. Arditissimo, ma purtroppo fallimentare, il raffreddamento ad acqua ideato da XXX, con una serpentina in plastica infilata tra le alette della testata, fusa dopo tre minuti e quattro secondi dall’accensione con conseguente emissione di nuvola di vapore da far invidia alla macchina del fumo dei Kiss.
Renzo, possessore della mitica Gilera CB1, sicuramente il più ferrato in materia meccanica di tutti noi, sapeva smontare e rimontare completamente il suo bolide fin nei minimi ingranaggi, cosa che faceva regolarmente e apparentemente senza motivo. Comunque non smetteva di stupirci con le sue riparazioni casalinghe tanto che una volta, aggiustò una grossa crepa del blocco motore con perdita d’olio, con un elaboratissimo rattoppo di ribattini e lamiera così ben fatto che sembrava un’opera d’arte moderna. Scoprì che le lampadine a siluro delle luci posteriori, private della protezione in vetro, originavano, una volta in tensione, una fiammella sufficiente ad accendersi una sigaretta. Sistema assai costoso, che però tenne banco per mesi nelle nostre lunghe chiacchierate estive ai tavolini del Bar Betti e ripetuto più volte per puro spirito goliardico
Io non eccellevo per gli interventi meccanici ma avevo qualche nozione elettrica grazie a mio papà Marino che faceva l’elettricista. Scoprii così, a mie spese, che la tensione elettrica che arriva alla candela si aggira attorno ai 15.000 volt e che non è il caso di metterci mano. Provai quindi a montare un interruttore nascosto a guisa di antifurto ma erano più le volte che rimanevo a piedi che quelle in cui viaggiavo perchè con le vibrazioni i fili si staccavano. Indirizzai quindi le mie conoscenza al settore audio, montando un altoparlante sul manubrio e fissando il registratore a cassette dietro la sella. All’inizio l’impianto monofonico si comportò egregiamente ed ebbe un certo successo finché una pioggia improvvisa fu fatale al mio altoparlante con cono in cartone e soprattutto al mio registratore a cassette.
Scorrazzavamo in lungo e in largo, capelli al vento e senza frontiere, finalmente indifferenti alle salite del nostro paese e di quelli vicini. Qualche volta assistevamo alle gare di motocross nella vicina pista di Canezza o al Cirè e poi per una settimana improvvisavamo analoghe piste tra sentieri, campagne e strade bianche sentendoci tutti dei Pietro Miccheli.
Era il 1978. Tra cadute, grippate e spazzolate alla candela ci avviavamo oltre i 16 anni, tutti senza casco, alcuni senza aver mai fumato una sigaretta, molti senza aver baciato una ragazza.
Qualcuno di noi prese la patente A e si presentò con una Vespa PX 125 che si poteva viaggiare in due. Tutti noi ci immaginammo alla guida di quel bolide elegante a sfrecciare con la ragazzina dai capelli rossi della pubblicità aggrappata a noi tra gli sguardi torvi delle solite cetine (*).
Intanto a Pergine, in località Paradisi, uno strano via vai di camion ed operai che scaricavano divanetti, casse acustiche e fari davanti a un capannone in cemento fecero nascere in noi il sospetto che qualcosa di grosso stava per succedere.
E anche quella volta non ci sbagliavamo.
Il seguito: Tutti al Namber
(*) Bigotte, baciapile, bacchettone
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