Segue da Si va al mare
Lasciate alle spalle le case coloniche, l’interesse per il panorama esterno scemava mentre aumentava l’effetto della mezza pastiglia di Valontan, così mi addormentavo cullato dall’affaticato rombo della Mini MInor MK2. Quello che c’è tra Caposile e Jesolo è rimasto a me sconosciuto per anni, finché non ho avuto l’età per guidare.
Mi svegliavo, credo il giorno dopo, nel letto a castello della pensione Paganella, dalle parti di Piazza Milano. Una costruzione tutta bianca e, come tutte, senza tetto spiovente.
– Qua mica nevica- diceva papà e io pensavo che però ogni tanto avrebbe pur piovuto e non mi capacitavo di dove sarebbe finita l’acqua.
La pensione Paganella era gestita da trentini, perché va bene andare fuori provincia ma sempre meglio fidarci dei “nostri”. Era molto spartana, senza ascensore e col bagno in comune con altre cinque camere ma a me sembrava il Grand Hotel. Tre piani di camere e al piano terra la sala da pranzo, il bar e un giardino con le altalene a dondolo. Mi sentivo il turista più ricco del mondo.
In spiaggia si arrivava in dieci minuti a piedi, passando davanti all’Hotel Caravelle, un altissimo e lussuoso grattacielo color marrone. Aveva anche una piscina dove una volta, entrati di nascosto, abbiamo fatto una foto con la Polaroid dove sembra proprio che ne stia uscendo. La spiaggia era lunghissima e larghissima tanto che dal fondo, Il mare nemmeno si vedeva quanto era lontano. Nella parte iniziale c’erano quelli delle sabbiature, solitamente uomini di una certa età, armati di una specie di rastrello, che preparavano dei giacigli di sabbia simili a delle fosse e una volta resi roventi dal sole, ci si sdraiavano dentro. Mogli o amici provvedevano a coprirli con altra sabbia caldissima. Rimaneva fuori solo la testa, opportunamente riparata da cappellini o da fazzoletti annodati e inumiditi. A me sembrava un cimitero di gente seppellita male.
Più avanti iniziavano le sterminate file di ombrelloni e sdraio, di colori diversi a seconda della pensione. Le nostre erano gialle e bianche. Una volta preso posto, e finito il rituale della spalmatura della crema solare, si schizzava in acqua, ma solo se erano passate tre ore dall’ultimo pasto. Abituati al lago di Caldonazzo, dove ti scorticavi i piedi sulle pietre ma soprattutto dove dopo cinque passi non toccavi più, non ci sembrava vero di avanzare metri e metri con l’acqua che a malapena arrivava al costume. In realtà, tolto questo primo approccio, in acqua non mi piaceva più di tanto. Troppo bassa e troppe onde per nuotare, schifosamente salata e una certa apprensione per i granchi che temevo stessero là ad aspettare proprio i miei ditini per togliersi la fame.
In definitiva, quello che amavo del mare era la sabbia. Adoravo stare in mutande tutto il giorno a scavare, costruire, impastare, lisciare quella sostanza magica che per quanto ci mettessi impegno a realizzare ardite costruzioni, il giorno dopo la trovavo di nuovo spianata e asciutta fino a pochi passi dalla battigia.
Il più bel gioco da fare con la sabbia era la pista delle biglie. Per la maggiore andavano quelle dei ciclisti, metà colorate e metà trasparenti con dentro la foto dei campioni dell’epoca: Gimondi, ovviamente poi Merckx, Battaglin, che con quel cognome lo volevamo tutti, Poulidor che chiamavamo Polidori, Bitossi.
Non c’erano segnali o appuntamenti. A un certo momento della giornata, come trascinati da una forza invisibile, ci riunivamo in una parte della spiaggia e la magia si ripeteva ogni volta. Bisognava innanzitutto dare un primo abbozzo alla pista, trascinando di chiappe sulla sabbia il concorrente più leggero, che si posizionava seduto in terra con le braccia sotto le ginocchia. I più robusti afferravano il prescelto per le caviglie e lo tiravano inventando le curve e controcurve più fantasiose. Se la sabbia era particolarmente calda capitava di dover sostituire il “segnapista” in corso d’opera.
Abbozzato il bigliodromo era l’ora degli abbellimenti: ognuno si occupava di un settore ed era un via vai dal mare alla pista di piccoli ingegneri-operai con secchielli, palette, conchiglie, bastoncini dei gelati, retine da pesca ad definire curve paraboliche, salti, gallerie e trabocchetti, salite e discese. Era quasi più bello costruire la pista che poi giocarci, cosa che comunque avveniva. Si tenevano partite epiche a suon di schicchere o flechi, con regole universalmente riconosciute. Durante la gara si doveva continuamente fare manutenzione per via del sole che asciugava la sabbia e per involontarie calpestate o cadute. Si giocava per ore ed ore mentre sopra le nostre teste, a intervalli regolari, passavano gli aerei con la pubblicità della crema Nivea o del Coppertone. A volte questi piccoli velivoli lasciavano cadere dal cielo piccoli gadget e allora vedevi decine di papà mollare la birretta e partire a razzo dentro l’acqua, disposti a commettere qualsiasi scorrettezza per accaparrarsi quel pupazzetto di plastica, più felici dei loro figli in caso di successo e più fantasiosi di giustificazioni se tornavano a mani vuote.
Verso sera si rientrava in albergo, ci si faceva la doccia dentro la vasca in comune e dopo cena, col vestito pulito, si passeggiava sul lungo viale. Si andava a letto ben dopo Carosello, stanchi, col rumore delle onde nelle orecchie e con la pelle arrossata dal sole.
Poi, improvvisamente, arrivava l’ora di rientrare a casa. L’ultimo pranzo, l’ultimo bagno, l’ultimo gelato ed eravamo già nella Mini MInor. Alle nostre spalle la pianura ci guardava andar via, ovviamente per una strada diversa da quella della settimana prima. Dopo Bassano, come forti braccia amiche, le montagne ci accoglievano premurose, nascondendoci l’orizzonte e cacciando via dalle nostre teste un pò di quel cielo azzurro forse troppo grande per noi.
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