Si sentiva che qualcosa stava per accadere. L’aria era strana da giorni, nella piccola scuola elementare di Susà di Pergine. Poi…
Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente)El fiòca!
(da Novecento di Alessandro Baricco.)

Da quel momento la voce della maestra sfumava, passava in sottofondo e l’interesse era tutto per quei piccoli magici fiocchi che venivano giù leggeri. La maestra Camilla insisteva, alzava la voce:
– Bambini state attenti! Ripetiamo i monosillabi accentati…
Parole al vento. Le nostre menti erano oramai proiettate fuori, a quello che avremo potuto fare di lì a poco, una volta liberati. Aspettavamo solo la campanella e il maestro Dario, che aveva il potere su quel pulsante, anticipava bonariamente l’uscita e come un Massimo Decimo Meridio dava il segnale per scatenare l’inferno.

La prima cosa da fare appena fuori era mangiarne un pò. Avevamo questa necessità di un contatto intenso, fisico e interiore con la neve. Si poteva optare per l’assunzione diretta, catturando i fiocchi direttamente in bocca, o raccogliendone un pò di quella posata anche se c’era il rischio, se era poca, di tirar su ed inghiottire ghiaia o altri corpi estranei. Non che ci facessimo problemi.
Poi il gruppo si divideva in varie fazioni. I più classici iniziavano a costruire il canonico pupazzo mentre i più romantici disegnavano sulla neve con un dito o un bastoncino; solitamente il tema era un cuore trafitto con le iniziali proprie e dell’amato o dell’amata. Ho scritto t’amo sulla sabbia, che andava in quei tempi, per noi non era nulla di nuovo, noi lo scrivevamo sulla neve. Il gruppo dei più esperti intanto sondava la consistenza nevosa impastando palle di neve esprimendo giudizi da sommelier “no la taca,” oppure “farinosa”, “màsa bagnada” o “giusta”. A prescindere dalla consistenza della magica copertura, partivano le prime palle di avvertimento poi, in un crescente gioioso, la battaglia prendeva vigore coinvolgendo tutti. Il pupazzo di neve diventava un’ottima riserva di materiale bellico e la tenera dichiarazione d’amore sul manto nevoso si trasformava, come spesso accade, in una micidiale azione di guerra. Le ostilità terminavano con un opportuno cessate il fuoco che ci consentiva di tornare a casa per il pranzo, paonazzi in volto, bagnati e con le mani gelate e violacee perchè:”vàra no sta bagnarte i guanti come to solito” non era una semplice raccomandazione. E comunque le palle di neve venivano meglio a mani nude.


Al pomeriggio, esaurita la foga bellica, si riesumavano dalle cantine le slitte di legno, che qualcuno chiamava “calèsi”, e ci si trovava tutti a quella che pomposamente chiamavamo la pista érta. Di fatto un sentiero tra le campagne con la neve battuta a forza di piedi, manate e di mille discese e risalite. A volte si portava una pala da casa e si improvvisavano dei trampolini che, assieme alle pietre che ogni tanto riaffioravano, mettevano a dura prova la tenuta dei nostri slittini con i “zalini” arrugginiti che alle prime discese lasciavano due righe arancioni sulla neve.

La neve non smetteva di scendere. A quei tempi, quando nevicava lo faceva davvero, e all’imbrunire, le poche automobili del paese erano rientrate tutte a casa. Quello era il momento magico, quando entravano in scena, annunciati dai lampeggianti arancioni, gli spartineve, enormi cunei di legno trainati dai trattori. Impropriamente li chiamavamo slitoni. Questi mostri pesantissimi servivano a spostare la neve ai bordi della strada, ma non ci sprofondavano, lasciando dietro di loro un suolo stradale che sembrava un biliardo di neve liscia e compatta. Un paradiso. I più coraggiosi, io mai fatto, giuro mamma, si attaccavano dietro allo spartineve e si facevano trainare su e su per la strada dela Malga, fin dove c’era l’ultima abitazione e dove noi, piu responsabili o forse solo più fifoni, li raggiungevamo a piedi trascinando le slitte. Era l’ora del baco. Una modalità di discesa dichiaratamente criminale e pericolosa e per questo diabolcamente attraente.

Si faceva così:
davanti a tutti si piazzava el mejo, il più scaltro, a pancia in giù sulla sua slitta. Con i piedi si incastrava nella slitta di chi veniva dietro che a sua volta si metteva a pancia in giù sulla sua, afferrando le gambe del mejo consolidando così il legame. A seguire, con le stesse modalità, tutti gli altri. Alla fine si formava una lunghissimo treno nel quale trovavano posto anche quelli che la slitta non ce l’avevano e che si sedevano sulle schiene dei più robusti. Una lunga coda che a volte poteva essere anche di dieci o più elementi, nella quale ogni componente era indissolubilmente legato agli altri e che solo lo staccamento traumatico degli arti avrebbe liberato. Dopo la formazione del treno c’era qualche istante di raccoglimento. Vedevamo giù, in basso Pergine illuminata, in lontananza, nella valle. Attorno a noi il silenzio.


Poi el mejo de tuti dava il via e si partiva, giù, a capofitto sulla strada bianca e liscia. Prima piano poi sempre più veloce col mejo che affrontava le curve anticipandole perché quello in coda altrimenti andava a schiantarsi su qualche paracarro, che allora erano di pietra. Giù come i missili davanti all’acquedotto, poi doppia curva, destra sinistra oltre la calcara. Ogni tanto passavamo su una zona dove la neve era stata pulita meglio, magari dagli spartineve più moderni, con la lama davanti e allora da sotto le slitte partiva una scarica di scintille. Uno spettacolo. E allora giù ancora più veloci, tripla curva davanti al bar Betti che se ci penso ora sto male, poi la Chiesa, il curvone del cimitero, la curva dello specchio e infine l’adrenalina finale. Pomarol. Un rettilineo lungo stretto e ripido fiancheggiato dai ciliegi che finiva nella piana, al Molin del Palù, praticamente a Pergine. Laggiù, il baco rallentava, esausto, sfinito, felice. El Mejo si asciugava gli occhi dalle lacrime e guardava soddisfatto il suo equipaggio sano e salvo che disordinatamente si scomponeva in piccoli pezzi che riacquistavano la loro autonomia.

Rientravo a casa col buio, stanco e affamato. Accarezzavo il gatto, infastidito perché avevo fatto entrare il freddo e mi mettevo a tavola. Niente selfie, nè messaggi a cui rispondere, niente social dove raccontare la giornata. Sapevo che non l’avrei dimenticata più.

E avevo ragione.

Puoi seguire la pagina del Trentaquattresimo Trentino su Facebook per essere aggiornato sulle nuove storie.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.